Aveva provato a difendersi. Abbandonata in un parco senza vita. I provvedimenti non sono riusciti a scoraggiare l’aggressore. 31 anni, 80 anni, 46 anni, Alessandra, Chiara, Stefania, Maria. Non importa l’età, non importa il nome. L’ultimo report del Servizio Analisi Criminale della Direzione Centrale della Polizia Criminale parla chiaro. Nel periodo dal primo gennaio al 15 agosto 2021 sono stati registrati 170 omicidi, con 69 vittime donne di cui 60 uccise in ambito familiare e affettivo; di queste, 43 hanno trovato la morte per mano del partner o dell’ex partner. Nell’ultimo anno è stata uccisa una donna ogni 3 giorni, e la pandemia con le disposizioni di restrizione sociale del lockdown, non ha semplificato le cose. I dati sono agghiaccianti. I fratelli Coen e Cormac McCarthy dicevano che non è un paese per vecchi ma – stando a quanto succede – neppure un paese per donne.
Se il termine nasce con la strage di Ciudad Juarez, quello che indica è una violenza molto più antica: fisica, psicologica, economica, rivolta contro la donna “in quanto donna”. Ma di cosa ci accusano fuori o dentro la “città che uccide le donne”? Di aver trasgredito al ruolo ideale imposto dalla tradizione, di non essere obbedienti, sessualmente disponibili, brave madri e brave mogli.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto questo tipo di violenza come un grave problema di salute pubblica, con una pesante ricaduta sul benessere psicologico e fisico delle vittime. Ed è innegabile che una assistenza sanitaria centrata e specifica possa fare la differenza. Le donne che subiscono o hanno subito una violenza di genere possono avere bisogni molto diversi, a seconda delle circostanze, della gravità della violenza e soprattutto delle sue conseguenze. Ma esiste un primo minimo livello di risposta di supporto che dovrebbe essere valido per tutti. Riservatezza, supporto scevro dal giudizio, attenzione. Insomma, un percorso rosa di prima accoglienza, di cui molti ospedali sono già dotati, che integri interventi medici, ginecologici, psicologici mirati a dare risposte sanitarie nell’emergenza alla vittima e che sia in network con la rete extra-ospedaliera dei centri antiviolenza, dei servizi sociali, delle Forze dell’Ordine, delle Procure.
Parlare di femminicidio è sempre complesso, soprattutto per i media. Perché si rischia di scadere nello sciacallaggio inopportuno, nel sensazionalismo o nell’approssimazione del dramma, come uno dei tanti episodi di cronaca, piatto e non empatico nei confronti del dolore. Difficile, perché ci si abitua alla sua presenza tra le notizie e diventa quasi routinario. Eppure non bisogna mai cedere alla “possibilità della sua esistenza” piuttosto sensibilizzare gli uomini, renderli consapevoli e partecipi, e far comprendere alle donne la necessità di prevenire simili fenomeni, chiudendo rapporti che esibiscono comportamenti violenti di qualsiasi tipo fin dai primi segnali, come rabbia esplosiva o eccessiva impulsività, comportamenti che minino la libertà, la dignità e l’integrità di una donna.
All’indomani della morte di Vanessa Zappalà, uccisa dall’ex fidanzato, viene affissa una targa di commemorazione delle vittime di violenza di genere che recita – “Il valore di un uomo lo vedi dal sorriso della donna che ha accanto” ancora una volta l’uomo al centro. Non è solo una frase infelice è un faro sul problema. Le donne come creature mitologiche, come manticore persiane di cui si parla senza però che nessuno le abbia mai viste sul serio.
Roberta Mochi, giornalista, Capo Ufficio Stampa ASL Roma 1